Raggiunto il benessere, Fitbit indica la via per migliorare la salute
Forte del patrimonioo di dati raccolti, più ancora dei dispositivi venduti, la strategia punta apertamente alla validazione clinica di smartwatch e tracker
Il momento felice attraversato dal mondo degli smartwatch non è frutto di una moda o di una tendenza. Almeno, non sempre. Buona parte del merito per gli attuali risultati di vendite va attribuito a chi ha saputo impostare una strategia di lungo termine e non ha smesso di crederci anche nei momenti più difficili.
«La nostra visione di wearable è invariata ormai da dodici anni, vale a dire da quando abbiamo iniziato a inquadrarli in funzione del benessere .- afferma Giovanni Bergamaschi, Eastern Mediterranean country manager di Fitbit -. Siamo riuscisti a trasmettere il messaggio di essere su Fitbit come qualcosa di più rispetto al semplicemente possedere uno smartwatch o un tracker».
In occasione della presentazione ufficiale dei nuovi Versa Lite, Insipre HR e Ace2, il massimo rappresentante dell’azienda in Italia si presta per un interessante analisi del settore, inquadrando le tendenze per i prossimi anni.
Un display, tutta salute
Guardando oltre i semplici numeri di vendita, l’azienda ha infatti voluto costruire una sorta di ecosistema, dove il dispositivo risulti solo il punto centrale intorno al quale costruire una comunità, grazie al contributo fondamentale di un’applicazione capace di andare oltre la semplice racolta dati, per aiutare a cambiare stile di vita, a socializzare e puntare sempre a nuovi obiettivi.
D’altra parte, la conferma più importante della validità di questa strategia arriva proprio dai numeri. A fine 2018 Fitbit aveva superato quota 90milioni di dispositivi venduti in 87 Paesi, raggiungendo il secondo posto negli USA per gli smartwatch.
«Di questi, ci tengo a sottolineare i 26,7 milioni di utenti attivi – precisa Bergamaschi -, vale a dire chi ne ha fatto ormai un’abitudine, utilizzandoli tutti i giorni e caricando regolarmente i dati».
Un patrimonio di informazioni
Proprio i dati sono al momento il patrimonio più importante sui quali costruire i prossimi passi. Il database Fitbit può infatti contare ormai si 18,1 miliardi di registrazioni sulla frequenza cardiaca, 9 miliardi di ore di sonno, 457 miliardi di ore di allenamento.
«Soprattutto però, mi piace sottolineare gli 8,1 milioni di donne che utilizzano il monitoraggio della salute femminile – puntualizza Bergamaschi -. Ci permette di contare sul database dedicato più grande al mondo».
I risultati non si sono fatti attendere. L’analisi interna ha permesso di verificare come il 73% degli utenti riesca a raggiungere gli obiettivi prefissati via app, e il 70% a ricavare benefici in termini di salute dai promemoria orari per invitare al movimento e a raggiungere i diecimila passi. Inoltre, chi si appoggia a un gruppo, registra incrementi giornalieri di 819 passi, vale a dire una ventina di chilometri al mese.
Le prossime sfide
Con gli aggiornamenti della tecnologia al momento verso una fase di assestamento, ora gli obiettivi Fitbit guardano in due altre direttrici principali. «Stiamo mettendo a punto una modalità Premium per l’app – anticipa Bergamaschi -. Con l’obiettivo di migliorare la propria salute, tra l’altro offriremo la possibilità di contattare direttamente specialisti per ottenere consigli personalizzati, ricavati dall’analisi dei propri dati».
Una sorta di prova generale per la vera grande sfida all’orizzonte. «Ormai non è più un segreto, punteremo apertamente al mondo della Sanità – conferma Bergamaschi -. È un percorso naturalmente lungo, dove però ci stiamo già muovendo su più fronti».
Negli USA infatti, Fitbit è già coinvolta in diversi studi e sperimentazioni per confermare l’utilità di smartwatch e trackband consumer nelle cure mediche. Impegno confermato in Italia e in Europa, dove tuttavia le procedure si stanno rivelando più articolate. A differenza degli USA dove una certificazione è sfruttabile su larga scala, alle normative dell’Unione Europea è necessario affiancare quelle dei singoli Stati.
Non c’è quindi da stupirsi se al momento i sensori di VO2 per rilevare l’ossigenazione nel sangue, presenti ormai in tutti gli smartwatch di ultima generazione, restino rigorosamente disattivati. La sensazione è che lo rimangano ancora almeno per un anno, se non oltre.
La sfida si giocherà anche con chi sta provando a seguire il percorso inverso e all’apparenza più semplice, allargando il raggio d’azione dei dispositivi medicali all’utenza consumer- «È un approccio completamente diverso – osserva Bergamaschi -. Noi puntiamo più sull’estendere le funzionalità di dispositivi scelti prima di tutto perché piacciono, aiutano a vivere meglio e sono belli da mettere in mostra. Spesso, con i sistemi clinici accade invece il contrario, si tende a nasconderli, quasi fossero il simbolo di una malattia».
Difficile infine esimersi da una valutazione su quello che di fatto al momento resta l’unico caso di strumento consumer accreditato di una funzionalità medica, l’ECG di Apple Watch. «Si tratta prevalentemente di una funzione software, non richiede una tecnologia in più – conclude Bergamaschi -. Mi chiedo però quale sia la vera utilità per l’utente venire a conoscenza di una eventuale aritmia se per una diagnosi valida serve comunque il parere di uno specialista. Noi preferiamo fornire all’utente informazioni utili a migliorare la salute e intereptretabili da soli».